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Introduzione del traduttore

Sutra del Loto

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Il Sutra del Loto è una delle scritture più importanti e autorevoli nell’ambito dei testi sacri del Buddismo Mahayana. Rispettato dalla maggior parte delle scuole Mahayana, nel corso dei secoli è stato oggetto di venerazione da parte dei credenti buddisti in Cina, Corea, Giappone e in altre regioni dell’Asia orientale.

    Non siamo in grado di sapere né quando né dove sia stato scritto, né in quale lingua. Probabilmente fu composto dapprima in qualche dialetto indiano o dell’Asia centrale e in seguito tradotto in sanscrito per conferirgli maggiore dignità. Tutto quello che possiamo affermare con certezza in merito all’epoca in cui fu scritto è che esisteva già nel 255 d.C., allorché fu completata la prima traduzione in cinese.

      Successivamente il Sutra del Loto fu tradotto in cinese diverse altre volte, ma solo grazie alla versione completata nel 406 dal monaco Kumarajiva, originario dell’Asia centrale, divenne molto conosciuto e letto in Cina e nei paesi soggetti all’influenza culturale cinese. Questa versione è generalmente riconosciuta come la più autorevole e felice sotto il profilo linguistico; la presente traduzione si basa su questa versione cinese.

        In anni recenti diversi testi sanscriti del Sutra del Loto, intitolati Saddharma-pundarika Sutra, ovvero Sutra del Loto della Legge Meravigliosa, sono stati scoperti in Nepal, Asia centrale e Kashmir. In alcuni casi si tratterebbe di copie eseguite nell’xi secolo o più tarde; in altri è possibile farle risalire addirittura al v o vi secolo. Queste versioni sanscrite in alcuni passi differiscono notevolmente dalla traduzione di Kumarajiva e spesso utilizzano espressioni linguistiche molto ridondanti. La cosa farebbe supporre che il testo su cui Kumarajiva si basò fosse più antico e probabilmente più vicino all’originale.

          Il Sutra del Loto, come abbiamo appena detto, fu ben presto tradotto non solo in cinese, ma anche in tibetano e successivamente in hsihsia, mongolo, manciù, coreano e giapponese. Negli ultimi anni sono state pubblicate diverse traduzioni in inglese e in altre lingue europee; ormai il Sutra del Loto appartiene al novero delle principali opere della letteratura mondiale.

            Il Buddismo delle origini

            Gautama, conosciuto anche come il Budda Shakyamuni, il fondatore del Buddismo, visse in India, probabilmente intorno al vi/v secolo a.C. Sebbene sia difficile descrivere in dettaglio le sue dottrine, gli studiosi hanno individuato alcuni principi rappresentativi del suo insegnamento.

              Le più famose probabilmente sono le cosiddette quattro nobili verità, delle quali si parla più volte nel Sutra del Loto. La prima insegna che l’esistenza nel mondo di saha, il mondo nel quale viviamo, è caratterizzata dalla sofferenza. La sofferenza, a sua volta, è causata dai desideri (seconda verità). Sradicando i desideri l’individuo può liberarsi dalla sofferenza e raggiungere uno stato di pace e illuminazione, chiamato sovente nirvana (terza verità). Per ottenere questo scopo occorre seguire una disciplina, nota come ottuplice sentiero (quarta verità). Questo sentiero è un insieme di principi morali che raccomandano di coltivare rette visioni, retto pensiero, rette parole, rette azioni, un retto modo di vivere, retti sforzi, retta concentrazione e retta meditazione.

                Un’altra dottrina cui viene fatto cenno nel Sutra del Loto è quella dei dodici anelli della catena causale (oppure dell’origine dipendente), che mette in risalto, anello dopo anello, la relazione causale che intercorre tra ignoranza e sofferenza. Scopo della dottrina, come nel caso delle quattro nobili verità, è quello di risvegliare l’individuo alla vera essenza della realtà e aiutarlo a liberarsi dall’ignoranza e dalla sofferenza.

                  Per seguire la severa disciplina necessaria alla liberazione dalla sofferenza era assolutamente indispensabile abbandonare la vita secolare e divenire membri dell’Ordine buddista, che comprendeva sia monaci sia monache. Solo in questa condizione, priva di legami familiari e preoccupazioni connesse alla vita quotidiana, era possibile, vivendo in povertà e in castità, dedicarsi allo studio e alla disciplina col sostegno delle offerte dei laici. I seguaci laici potevano acquisire meriti assistendo i membri dell’Ordine, osservando precise regole di condotta morale e rispettando alcune pratiche devote (ad esempio, l’omaggio agli stupa, o torri commemorative, in cui venivano conservate le reliquie del Budda). Tuttavia si riteneva che essi avrebbero dovuto attendere le esistenze future prima di sperare di liberarsi completamente dalla sofferenza.

                    Occorre notare che il Buddismo assorbì la credenza nel karma dal pensiero indiano più antico. Secondo questo principio tutte le azioni morali compiute da una persona, sia buone sia cattive, producono nella sua vita determinati effetti che non si manifestano necessariamente nell’immediato ma possono richiedere un certo lasso di tempo. Secondo la visione indiana, gli esseri viventi passano attraverso un ciclo infinito di nascite e morti e gli effetti negativi di un’azione malvagia compiuta in una vita possono essere differiti a un’esistenza successiva, ma inevitabilmente si manifesteranno, prima o poi. Ne segue che solo sforzandosi di compiere azioni positive nell’esistenza presente si possono evitare sofferenze ancora maggiori nelle vite future.

                      Il Buddismo negò sempre con decisione l’esistenza di un’anima individuale o di un’identità personale che trapassi da una vita alla successiva: il solo fatto di pensare che esista stimola ulteriori desideri. Tuttavia accolse il principio della rinascita o della trasmigrazione, insegnando che le circostanze e l’ambiente in cui un essere rinasce sono determinati dalle azioni positive e negative compiute da quell’essere nelle esistenze precedenti. Questo, fra l’altro, implicava che un individuo non fosse costretto a lottare per la propria salvezza in una singola esistenza, ma che potesse agire per gradi successivi; compiendo azioni moralmente buone e atti di devozione sarebbe potuto rinascere in circostanze più favorevoli in futuro, elevando così gradualmente il proprio livello spirituale.
                      L’insieme dei principi e delle pratiche descritti finora è spesso indicato col termine di Buddismo Hinayana. Tuttavia Hinayana (piccolo veicolo) è un termine dispregiativo utilizzato per indicare il Buddismo delle origini da un gruppo che a sua volta si autodefiniva Mahayana, il “grande veicolo”, e che riteneva le proprie dottrine superiori a quelle delle prime forme di Buddismo. Attenendosi allo spirito della tolleranza religiosa e della reciproca comprensione, gli studiosi moderni evitano di utilizzare il termine Hinayana, preferendo riferirsi al Buddismo delle origini con i termini “Theravada” o “insegnamenti degli anziani”, termini usati dalle scuole attualmente esistenti. Questa forma di Buddismo oggi è diffusa soprattutto in Sri Lanka, Birmania, Thailandia, Cambogia e Laos.

                        Sembra che il movimento Mahayana abbia mosso i primi passi in India intorno al i o al ii secolo d.C. In parte si trattò probabilmente di una reazione alla grande enfasi attribuita alla vita monastica, caratteristica del Buddismo delle origini, e contro le aride speculazioni metafisiche e psicologiche che contraddistinguevano la precedente filosofia buddista. Il suo obiettivo era quello di aprire la vita religiosa a una più larga parte della popolazione e di attribuire un ruolo maggiore ai credenti laici, rendendo più attraenti e immediatamente accessibili gli insegnamenti.

                          Nel Buddismo delle prime generazioni scopo fondamentale della pratica religiosa era raggiungere lo stato di arhat (perfetto), ovvero colui che “non ha più nulla da apprendere” ed è libero dal ciclo delle rinascite negli stati inferiori dell’esistenza. Ma anche per raggiungere questa condizione si riteneva che occorresse un impegno instancabile per molte esistenze. Il Buddismo Mahayana, invece, indirizzò immediatamente i suoi seguaci, uomini e donne, verso il supremo stadio di illuminazione, lo stato di Buddità. In questo processo di crescita spirituale sarebbero stati di grande aiuto i cosiddetti bodhisattva, esseri dotati di immensa compassione che, oltre a coltivare la propria illuminazione, si sforzavano di aiutare gli altri a fare lo stesso. Il Buddismo delle origini descrisse spesso il Budda Shakyamuni come un individuo che era stato bodhisattva nelle esistenze passate, allorché stava ancora avanzando verso l’illuminazione. Ma nei testi Mahayana, come il Sutra del Loto, i bodhisattva sono rappresentati in numero illimitato, capaci di vedere e di aver cura di ognuno, sempre pronti a soccorrere senza esitazione coloro che si appellano a loro con fede sincera. Questa grande rilevanza attribuita al ruolo del bodhisattva è, in effetti, uno dei tratti che differenzia maggiormente il pensiero Mahayana dalle precedenti forme di Buddismo.

                            Sembra che inizialmente i fautori di queste nuove credenze Mahayana vivessero in molti casi negli stessi monasteri in cui vivevano i seguaci degli insegnamenti più antichi e che fondassero le loro pratiche religiose sul culto delle reliquie del Budda conservate negli stupa o torri commemorative. Ma di tanto in tanto si verificavano dei veri e propri contrasti dottrinali e col tempo i due gruppi si separarono. Risulta che le dottrine Mahayana abbiano esercitato un’influenza determinante nell’India nord-occidentale, da dove si sarebbero diffuse nell’Asia centrale e in Cina. Di conseguenza il Buddismo cinese è stato fin dall’inizio essenzialmente Mahayana; questa versione Mahayana della fede nei secoli si diffuse in Corea, in Giappone e in Vietnam, dove continua a esistere ancora oggi.

                              Il mondo del Sutra del Loto

                              Il Sutra del Loto descrive eventi che si verificano in un universo di vaste dimensioni, un mondo che sotto molti punti di vista riflette la cosmologia indiana tradizionale. Ne darò una breve descrizione, a beneficio di coloro che non hanno alcuna familiarità con essa. Si riteneva che il mondo in cui noi viviamo fosse costituito da quattro continenti che circondavano una gigantesca montagna centrale, il Monte Sumeru. Noi viviamo nel continente situato a sud, chiamato Jambudvipa, il continente “degli alberi di jambu”. Al di fuori del nostro mondo ne esistono innumerevoli altri, sparsi in tutte le direzioni, alcuni simili al nostro nella struttura, governati da vari Budda. Tutti questi mondi, compreso il nostro, sono soggetti a un incessante ciclo di formazione, stabilità, declino e disintegrazione, un processo che si svolge nel corso di innumerevoli kalpa o eoni. Gli esseri viventi comuni che vivono nel nostro mondo attuale rientrano in sei categorie, cioè vivono in uno dei sei regni dell’esistenza strutturati gerarchicamente secondo il loro grado di desiderabilità. Al livello inferiore vi sono coloro che vivono nel mondo di inferno. Questi esseri, a causa di azioni malvagie compiute in passato, sono costretti a soffrire per determinati periodi di tempo nei vari tipi di inferni situati al di sotto della terra; il più terribile di tutti è il cosiddetto inferno Avichi, l’inferno della sofferenza incessante. Al livello immediatamente superiore si trovano gli spiriti affamati, esseri tormentati da una fame insaziabile e da desideri irrefrenabili. Viene poi il mondo delle bestie o degli esseri dominati dagli istinti animaleschi, sopra al quale si trova il regno degli asura, demoni che nella mitologia indiana sono rappresentati come continuamente impegnati in furiose battaglie. Questi primi tre o quattro stati rappresentano i cosiddetti “cattivi sentieri”, gli stati dell’esistenza più infimi, dolorosi e indesiderabili.

                                Al quinto livello si trova il regno degli esseri umani, seguito dal sesto, quello degli esseri celesti o dei. Anche gli dei, sebbene vivano in condizioni di gran lunga più felici degli esseri degli altri mondi, sono destinati a morire prima o poi. Quale che sia il regno di appartenenza, tutti gli esseri dei sei mondi ripetono il ciclo senza fine della morte e della rinascita, muovendosi da uno all’altro dei sei stati a seconda delle azioni positive o negative compiute, ma senza poterlo interrompere.

                                  Il Buddismo Mahayana aggiunge a questi primi sei altri quattro mondi, i cosiddetti “nobili mondi”, che rappresentano la vita illuminata. Il settimo mondo è quello degli shravaka, “gli ascoltatori della voce”. Questo termine, che viene utilizzato di frequente nel Sutra del Loto, si riferiva in origine ai discepoli del Budda, ovvero a coloro che erano entrati a far parte dell’Ordine buddista e che avevano appreso direttamente dal Budda le dottrine e le pratiche. In seguito indicò i monaci e le monache che seguivano gli insegnamenti del Buddismo delle origini, come le quattro nobili verità, e si sforzavano di conseguire lo stato di arhat. Una volta raggiunta quella condizione, essi interrompevano i propri sforzi, convinti di aver raggiunto la massima condizione cui potessero aspirare.

                                    Al di sopra di essi vi sono i pratyekabuddha, “coloro che raggiungono l’illuminazione da soli”, esseri che hanno compreso la verità grazie ai propri sforzi, ma che non fanno nulla per insegnare agli altri la via dell’illuminazione né si prodigano in loro aiuto. Il nono stadio è quello dei bodhisattva, di cui si è già parlato. Essi, mossi dalla compassione, decidono di rinviare l’ingresso nel mondo della Buddità e continuano a vivere nel mondo di saha per alleviare le sofferenze altrui. Il decimo e supremo livello è quello dei Budda, lo stato della Buddità. Secondo il Buddismo Mahayana tutti gli esseri viventi dovrebbero sforzarsi di raggiungere questa condizione, che è alla loro portata, purché essi non si contentino di perseguire scopi inferiori e continuino ad avere fede nel Budda e negli insegnamenti contenuti nelle scritture sacre.
                                    Prima di passare a un esame delle dottrine specifiche del Sutra del Loto, occorre sottolineare un altro aspetto caratteristico del Buddismo Mahayana, sebbene si tratti di un concetto particolarmente complesso e difficile da illustrare in sintesi. È il concetto della vacuità (shunyata), che riveste un ruolo essenziale nel sistema filosofico Mahayana.

                                      Il concetto, frequentemente espresso in inglese con il termine “non-dualismo”, è estremamente difficile da comprendere o da intuire, dato che la mente è costantemente impegnata a compiere distinzioni e il non-dualismo costituisce proprio il rifiuto o il trascendimento di tutte le distinzioni. Il mondo percepito attraverso i sensi, il mondo fenomenico che noi conosciamo, nel Buddismo delle origini era descritto come “vuoto”, perché si insegnava che tutti i fenomeni hanno origine da cause e condizioni, sono in costante divenire e sono destinati a mutare e a scomparire col passare del tempo. Si riteneva inoltre che essi fossero “vuoti” nel senso che non possedevano caratteristiche inerenti o permanenti che permettessero di rappresentarli, dato che erano soggetti a un costante processo di trasformazione. Ma nel pensiero Mahayana divenne usuale sottolineare non tanto gli aspetti negativi della dottrina della “vacuità”, quanto le sue implicazioni positive. Se tutti i fenomeni sono caratterizzati dalla vacuità, allora proprio la “vacuità” deve costituire la natura propria e immutabile dell’esistenza; pertanto il mondo assoluto e immutabile deve essere tutt’uno con il mondo fenomenico. Tutte le distinzioni mentali e fisiche che noi percepiamo o concepiamo con la nostra mente devono essere parte di una singola unità che le compenetra. Il concetto di “vacuità” o non-dualismo condusse i filosofi Maha- yana ad asserire che il samsara, il mondo della sofferenza e del ciclo di nascita e morte, è in definitiva identico al mondo del nirvana e che i desideri e le illusioni sono illuminazione.

                                        Le principali dottrine del Sutra del Loto

                                        La traduzione di Kumarajiva del Sutra del Loto, nella forma giunta sino a noi, è costituita da ventotto capitoli. Quasi tutti i capitoli sono composti parte in prosa e parte in versi. L’uso dei versi aveva la funzione di rendere più facile ai discepoli memorizzare e ricordare le dottrine ed è probabile che i gatha, i brani in versi, siano stati scritti per primi. In seguito, mentre il testo del Sutra si evolveva verso la sua forma finale, vennero aggiunti i brani in prosa che incorporavano i versi in un continuum narrativo. Nella presente versione del testo le sezioni in versi di solito ripetono ciò che è stato affermato nel precedente passo in prosa.

                                          Come in quasi tutti i sutra, il Sutra del Loto si apre con le parole di Ananda, uno dei discepoli più vicini a Shakyamuni, il quale afferma: «Così io ho udito». Lo stesso Ananda, che è stato sempre presente alle prediche in cui il Budda esponeva il Dharma, ovvero la dottrina, subito dopo passa a descrivere le circostanze in cui Shakyamuni, sul monte Gridhrakuta (il Picco dell’Aquila) nei pressi della città di Rajagriha, predicò il Sutra del Loto.

                                            Le frasi iniziali descrivono circostanze storicamente reali e plausibili di un luogo situato nei pressi di una città dell’India settentrionale in cui è molto probabile che Shakyamuni abbia predicato nel vi o nel v secolo a.C.

                                              Ma non appena Ananda si accinge a riferire dell’incredibile numero e della varietà di esseri umani, non umani e celesti che si sono riuniti per ascoltare il sermone del Budda, ci rendiamo conto che abbiamo lasciato il mondo reale alle nostre spalle. Questo è un primo elemento da prendere in considerazione leggendo il Sutra del Loto. Lo scenario, il vasto uditorio, i drammatici eventi che si verificano nella parte conclusiva, appartengono a una dimensione che trascende completamente i nostri concetti di tempo, di spazio e di possibilità. Più volte ci vengono riferiti eventi che si verificarono in un passato infinitamente remoto, innumerevoli kalpa fa, e si parla di esseri viventi o di mondi numerosi come i granelli di sabbia di milioni e miliardi di fiumi Gange. In realtà questi numeri non sono altro che pseudo-numeri, valori simbolici, con i quali il Budda intende farci comprendere l’impossibilità di misurare ciò che è incommensurabile. Essi non hanno tanto lo scopo di fornire informazioni statistiche, quanto di spingere la mente a mettere in discussione e abbandonare le tradizionali concezioni di spazio e di tempo. Infatti, nel regno del vuoto, il tempo e lo spazio così come li concepiamo non hanno alcun significato. Ogni luogo equivale a un qualsiasi altro e ora, allora, sempre o mai sono la stessa cosa.

                                                Dopo una successione di eventi straordinari che sottolineano la dimensione cosmica del dramma che sta per essere rappresentato, il Budda inizia la sua predicazione. Il primo punto importante che egli desidera trasmettere ai discepoli è che esiste un solo veicolo, o un solo sentiero, che conduce alla salvezza, ovvero al conseguimento della Buddità. In precedenza, nel corso delle sue predicazioni, aveva descritto tre sentieri per il credente, che ha chiamato i tre veicoli. Il primo era quello dello shravaka, l’ascoltatore della voce, che conduce allo stato di arhat. Il secondo era quello del pratyekabudda, colui che ottiene l’illuminazione da sé e solo per se stesso; il terzo era quello del bodhisattva. Tuttavia, afferma ora il Budda, questi tre veicoli devono essere scartati e tutti gli esseri devono aspirare alla Buddità, il solo e unico veicolo che conduce alla vera illuminazione e alla perfetta comprensione, condizione questa che nel Sutra del Loto viene definita con un’espressione sanscrita piuttosto ardita, anuttara-­samyak-sambodhi.

                                                  Alla domanda del perché, se esiste un solo veicolo e una sola verità, il Budda abbia insegnato in precedenza ai discepoli la dottrina dei tre veicoli, egli replica affermando che allora essi non erano ancora pronti ad accettare e a capire la verità suprema. Pertanto ha dovuto ricorrere a quello che lui stesso definisce un espediente opportuno, per guidarli a una verità superiore. Per spiegare questo punto utilizza la celebre parabola della casa che brucia.


                                                    La prima lezione che il sutra intende trasmetterci, dunque, è che le dottrine impartite dal Budda dopo oltre quarant’anni di predicazione, secondo la testimonianza del sutra stesso, rappresentano il massimo livello della verità, la summa del messaggio del Budda, e quindi sostituiscono le sue precedenti affermazioni, dotate esclusivamente di valore provvisorio.
                                                    In alcuni testi Mahayana Shariputra e altri discepoli stretti del Budda, che rappresentano la tipologia del discepolo Theravada, vengono ridicolizzati e ritratti come personaggi di cui prendersi gioco. Ma l’atmosfera che prevale nel Sutra del Loto è caratterizzata dalla compassione e in questo testo gli shravaka, gli ascoltatori della voce, rispondono con comprensione e gratitudine alle parole del Budda. A sua volta il Budda concede a ciascuno di essi la predizione del conseguimento della Buddità in un’esistenza futura e in vari casi descrive il tipo di terra del Budda che a loro toccherà di governare.

                                                      L’atmosfera di gioia e di rivelazione domina anche i capitoli seguenti, mentre il Budda continua a nominare persone che conseguiranno certamente la Buddità in futuro. La schiera di monache che prende parte all’assemblea, guidata da Mahaprajapati, zia di Shakyamuni, e da colei che era stata moglie del Budda in gioventù, Yashodara, a un certo punto mostra segni di apprensione, in quanto i loro nomi non sono stati pronunciati, ma il Budda le rassicura dicendo che anche loro sono incluse nelle sue predizioni di conseguimento della Buddità.
                                                      Tutti i monaci e le monache citati finora, discepoli diretti del Budda Shakyamuni, avevano svolto con diligenza la propria pratica religiosa, attenti a seguire rigorosamente le regole morali; non sorprende quindi il fatto che i loro sforzi debbano in futuro essere coronati dal successo. Quello che sorprende veramente è invece la profezia pronunciata nel dodicesimo capitolo e riferita a Devadatta, il cui nome dà il titolo al capitolo.

                                                        Nelle biografie del Budda Shakyamuni Devadatta è descritto come suo discepolo e cugino. Dopo un grande zelo iniziale, a un certo punto, divenuto invidioso del Budda, mise in atto diversi tentativi per ucciderlo e cercò anche di fomentare una divisione all’interno dell’Ordine buddista. A causa di questi crimini, considerati tra i più gravi agli occhi del Buddismo, Devadatta sarebbe sprofondato vivo nell’inferno. Tuttavia, nel dodicesimo capitolo del Sutra del Loto, Shakyamuni rivela che in un’esistenza passata anche questo simbolo vivente del male era stato un buon amico e un maestro del Budda, cui aveva mostrato la via dell’illuminazione; egli quindi predice che in un’era a venire anche Devadatta diverrà sicuramente un Budda. Da questo apprendiamo che anche le persone più malvagie possono aspirare alla salvezza e che nel regno del non-dualismo bene e male non sono due estremi eternamente opposti che si escludono reciprocamente come avevamo sempre pensato.
                                                        Il capitolo Devadatta contiene anche un altro evento di eguale rilevanza. A un certo punto il bodhisattva Manjushri racconta di aver predicato il Sutra del Loto nel palazzo del re dei naga, sul fondo del mare. Occorre far presente che i naga, ovvero i draghi, erano una delle otto categorie di esseri non umani che proteggono il Buddismo. Venerati nell’antica religione popolare indiana, furono accolti tra le divinità del Buddismo. Nelle scritture essi sono spesso rappresentati nell’atto di tributare il proprio omaggio al Budda, desiderosi di apprenderne le dottrine.

                                                          Al bodhisattva Manjushri viene chiesto se qualcuno dei presenti abbia conseguito l’illuminazione ed egli spiega che la figlia del re drago Sagara, una fanciulla di appena otto anni, aveva dimostrato piena padronanza di tutti gli insegnamenti. L’interlocutore di Manjushri esprime tutto il proprio scetticismo al riguardo, affermando, fra l’altro, che lo stesso Shakyamuni aveva dovuto seguire le pratiche religiose per molti eoni prima di poter conseguire l’illuminazione.

                                                            A questo punto la fanciulla appare in persona e, davanti all’assemblea colta da profondo stupore, compie diverse azioni a dimostrazione del fatto che ha raggiunto il massimo livello di comprensione e può conseguire la Buddità “in un istante”. Negli insegnamenti buddisti precedenti si era sempre sottolineato il fatto che le donne fossero fortemente limitate nelle loro pratiche religiose da cinque ostacoli, uno dei quali era il non poter sperare di conseguire l’illuminazione. Ma tutte queste affermazioni sono inequivocabilmente refutate nel Sutra del Loto. La fanciulla è un drago, un essere non umano, è di sesso femminile e ha appena compiuto otto anni; nonostante tutto ciò raggiunge lo scopo supremo nel breve volgere di un istante. Ancora una volta il Sutra del Loto rivela che le sue dottrine rivoluzionarie si situano in una dimensione che trascende le insignificanti distinzioni di sesso o di specie, di istanti o di eoni.

                                                              Queste fauste rivelazioni concernenti l’accessibilità universale dello stato di Budda, che occupano i capitoli centrali del sutra, costituiscono il secondo messaggio essenziale dell’opera. Il terzo viene comunicato nel sedicesimo capitolo. Nel quindicesimo si narra di un’enorme moltitudine di bodhisattva che emergono dalla terra in modo miracoloso, pronti ad assumersi il compito di trasmettere e proteggere gli insegnamenti del Budda. Quando viene chiesto a Shakyamuni chi siano questi bodhisattva egli risponde che sono persone istruite e guidate da lui stesso all’illuminazione. Chiaramente l’interlocutore domanda come Shakyamuni abbia potuto istruire e convertire una simile moltitudine di discepoli in soli quarant’anni di predicazione.
                                                              Nel sedicesimo capitolo Shakyamuni fornisce la risposta a questo interrogativo. Il Budda, afferma, è un essere eterno, sempre presente nel mondo, costantemente preoccupato della salvezza di tutti gli esseri viventi. Egli ha conseguito l’illuminazione in un passato incredibilmente lontano e da allora non ha mai cessato di vivere nel mondo. Talvolta egli dà l’impressione di entrare nel nirvana e in altre occasioni di apparire nuovamente nel mondo. Ma egli lo fa solo per evitare che gli esseri viventi diano per scontata la sua esistenza e che il loro desiderio di raggiungere l’illuminazione si affievolisca. La sua apparente scomparsa non è altro che un espediente utilizzato per incoraggiare i discepoli nei loro sforzi, uno dei tanti mezzi che egli adotta per trasmettere le sue dottrine a individui dotati di natura e capacità diverse, in modo che ognuno possa trarre profitto dai suoi insegnamenti. Da questa affermazione notiamo che nel Sutra del Loto il Budda, che in precedenza era rappresentato come una figura storicamente definita, viene ora concepito come un essere che trascende qualsiasi limite spazio-temporale, come un eterno principio di verità e di compassione, che esiste in ogni luogo e all’interno di tutti gli esseri.

                                                                Questi sono dunque i principali insegnamenti del Sutra del Loto, concetti che costituiscono il fondamento del Buddismo Mahayana. Nel testo sono spesso spiegati in forma splendida e profondamente persuasiva, soprattutto grazie all’impiego di alcune celeberrime parabole. Ma non ci si deve accostare al Sutra del Loto aspettandosi di trovarvi un’esposizione metodica di un sistema filosofico. Alcuni dei principi essenziali del Buddismo sono soltanto accennati di sfuggita, come se si ritenesse che il lettore ne sia già al corrente, mentre alcune fra le dottrine più rivoluzionarie non sono esposte in maniera metodica né sostenute da argomentazioni dettagliate; davanti a esse il lettore ha piuttosto la sensazione di un’improvvisa rivelazione divina.

                                                                  Il testo, con le sue lunghe liste di personaggi, i numeri astronomici, il linguaggio ricco di formule fisse e di frequenti ripetizioni, le parabole colorite, ha nel suo insieme l’effetto di un incantesimo e più che all’intelletto fa appello alle emozioni. È importante ricordare che nei primi secoli della tradizione buddista non era usanza trasmettere gli insegnamenti in forma scritta, ma oralmente; le dottrine quindi venivano affidate alla memoria, secondo l’uso delle religioni indiane arcaiche. Si riteneva che questa fosse la via da seguire, il modo rispettoso di trasmettere gli insegnamenti e di assicurarsi che non venissero rivelati a persone non qualificate e non degne di esserne messe a parte. Il linguaggio denso di formule, i brani di riepilogo in versi e le ripetizioni servivano ad aiutare il discepolo nello sforzo mnemonico e con il passaggio alla forma scritta divennero elementi stilistici tipici delle scritture buddiste.

                                                                    Proprio agli inizi del sutra il Budda ammonisce che la saggezza di tutti i Budda è estremamente profonda e difficile da comprendere e questo ammonimento viene frequentemente ripetuto nei capitoli successivi. Il Sutra del Loto a volte dice che il sutra stesso sta per essere predicato, mentre in altri passi dice che è già stato predicato e ne descrive i risultati; in altre occasioni, infine, il sutra fornisce delle istruzioni su come deve essere predicato o elenca in dettaglio i meriti che saranno conseguiti da coloro che tributeranno il dovuto omaggio al testo. Ma il lettore potrebbe trovarsi in difficoltà se, al termine della lettura, si chiedesse quale dei suoi capitoli fosse inteso come il Sutra del Loto vero e proprio. Un commentatore ha descritto il sutra come un testo «riferito a un discorso che non viene mai pronunciato, … una lunghissima prefazione scritta per un libro che non esiste.»1 Tutto questo deriva dal fatto che secondo il Buddismo Mahayana la verità suprema dell’insegnamento buddista non può essere assolutamente espressa a parole, dal momento che queste creano immediatamente delle distinzioni che violano l’unità del “vuoto”. Quello che il sutra può fare, quindi, è parlare girando intorno, lasciando in mezzo un buco al cui interno si trova la verità.
                                                                    Naturalmente in ambito religioso esistono altri approcci alla verità che non siano le parole o il discorso logico. Il sutra quindi esorta gli individui ad accostarsi alla saggezza dei Budda seguendo la via della fede e della pratica religiosa. La profonda influenza che il Sutra del Loto ha esercitato sulla vita culturale e religiosa dei paesi dell’Asia orientale è sicuramente dovuta sia alla sua funzione di guida per la pratica devozionale sia ai principi filosofici che insegna. Ci spinge ad agire vivendo per così dire le parole del sutra col corpo e la mente, piuttosto che limitarci a leggerne il testo, indicandoci così il percorso verso la comprensione del suo significato.

                                                                      In diverse occasioni il seguace riceve l’ingiunzione di «accettare e sostenere, leggere, recitare, copiare e insegnare» il sutra ad altre persone; nello stesso tempo vengono descritti sia i meriti illimitati che verranno accumulati grazie a queste azioni sia gli effetti negativi delle offese al sutra e alle sue pratiche. Inoltre il credente viene incoraggiato a fare offerte ai Budda e ai bodhisattva, agli stupa o torri commemorative e ai membri dell’Ordine monastico. I fiori, l’incenso, la musica e i canti religiosi sono le offerte menzionate più di frequente nel testo, mentre nel caso dei membri dell’Ordine si fa riferimento anche a mezzi di sostentamento quotidiano (cibo, vesti, coperte). L’oro, l’argento, le gemme e altri beni preziosi sono citati fra le possibili offerte, ma proprio in ragione del fatto che questa cosa avvantaggerebbe le persone abbienti, il sutra sottolinea fin dall’inizio l’importanza dello spirito con cui l’offerta viene fatta piuttosto che l’offerta in sé. Anche una torre di sabbia costruita da un bambino per gioco, se offerta con lo spirito giusto, può essere accolta dal Budda e portare a una ricompensa per il devoto. Occorre anche sottolineare che i sacrifici di animali, che nella tradizione vedica rivestivano un grande significato, nel Buddismo vengono aborriti. È vero che in un capitolo del Sutra del Loto si legge il racconto di un bodhisattva che diede fuoco al proprio corpo come forma di sacrificio, ma il brano è chiaramente da leggersi come una metafora. Nonostante ciò, in epoche successive alcuni seguaci, nell’intento di emulare l’esempio del bodhisattva in questione, hanno tragicamente interpretato il brano in senso letterale.

                                                                        Tra i capitoli più famosi e influenti per il loro contenuto devozionale vi sono quelli conclusivi, che ritraggono vari bodhisattva dotati di particolari virtù protettive nei confronti dei credenti. Notevole è il capitolo venticinquesimo, in cui si parla del bodhisattva Avalokiteshvara, Percettore dei Suoni del Mondo, conosciuto in Cina come Kuan-yin e come Kannon in Giappone. Il capitolo narra in termini molto concreti i meravigliosi modi in cui il bodhisattva è in grado di proteggere persone di qualsiasi livello e ceto sociale, da re e alti dignitari fino a mercanti in viaggio o a criminali in catene. Al fine di rendere il suo insegnamento, e quindi il suo aiuto, facilmente accessibile a tutti gli esseri viventi, il bodhisattva ha la possibilità di assumere trentatré forme diverse ed è quindi in grado di assumere le sembianze di tutti gli esseri che invocano il suo ausilio, siano uomini o donne, persone abbienti o umili, esseri umani e non. Grazie al testo di questo e di altri capitoli simili, che sono stati recitati con fervore da innumerevoli seguaci nel corso dei secoli, il sutra ha arrecato conforto e speranza a ogni ceto sociale.
                                                                        Per la sua importanza in quanto espressione essenziale del pensiero Mahayana, il suo carattere di opera religiosa e per le celebri parabole e le scene drammatiche, il Sutra del Loto, come abbiamo già sottolineato, ha esercitato un’enorme influenza sulla cultura dell’Asia orientale. I commentari dedicati al Sutra del Loto superano in quantità qualsiasi altra scrittura della tradizione buddista. Alcuni capolavori della letteratura cinese e giapponese, quali Il sogno della camera rossa e La storia di Genji, sono ispirati dalle sue immagini e dai suoi principi; inoltre il Sutra del Loto ha fornito spesso degli spunti per l’espressione dell’arte religiosa nei paesi citati.

                                                                          Nel caso del Sutra del Loto non ci troviamo dinanzi a un’opera integrale quanto piuttosto a una raccolta di testi religiosi, a un’antologia di sermoni, racconti e precetti devozionali, capaci di rivolgersi con particolare efficacia a persone e circostanze sempre diverse a seconda dei casi. Questa è senza dubbio una delle ragioni che spiegano il durevole e vasto consenso che ha incontrato nel corso dei secoli in tutte le culture ove è stato introdotto.

                                                                            La traduzione attuale viene offerta ai lettori nella speranza che possano apprezzare il vigore e il fascino del Sutra del Loto e che, fra tutte le sue profonde idee religiose e le fantastiche metafore, possano trovare qualcosa che catturi il loro spirito.

                                                                              Burton Watson

                                                                                Nota del traduttore

                                                                                Il presente lavoro, come dovrebbe risultare chiaro dalla lettura dell’introduzione, è indirizzato a un pubblico che non possiede alcuna particolare conoscenza della tradizione buddista o della letteratura asiatica. I nomi e i termini sanscriti, per esempio, sono trascritti in una forma leggermente diversa dallo standard utilizzato nei testi specialistici, una forma che dovrebbe facilitare la corretta pronuncia dei termini. Il glossario riporta alcune informazioni essenziali su nomi di persona, di luoghi e sui termini tecnici che compaiono di frequente nel testo.

                                                                                  La traduzione, si spera, non si limiterà a far conoscere i concetti filosofici per cui l’opera è divenuta tanto famosa, ma dovrebbe anche offrire una pur relativa immagine del valore letterario del sutra. In ogni caso si è scelto di utilizzare un linguaggio relativamente moderno. Non è stato fatto alcun tentativo, come si può riscontrare in altre traduzioni di scritture buddiste, di conferire al testo un tono “religioso” con l’impiego di forme arcaiche che potessero ricordare il linguaggio biblico. Nonostante la somiglianza che è stata spesso messa in evidenza tra una delle parabole del sutra e il Nuovo Testamento, ovvero la parabola del figliol prodigo, il Sutra del Loto, specialmente per ciò che riguarda i principi filosofici, risulta alquanto distante dal mondo della Bibbia.

                                                                                    Qualcuno si potrebbe anche chiedere la ragione per cui, dato che il Sutra del Loto è un’opera della tradizione buddista indiana, in questa sede venga presentata una traduzione della versione cinese di Kumarajiva invece delle versioni sanscrite. In primo luogo, come ho già ricordato nell’introduzione, sebbene noi non sappiamo in quale lingua il sutra sia stato composto originariamente, è abbastanza sicuro che non fosse in sanscrito; per cui le versioni sanscrite si discostano già dal testo originale. Inoltre, nessuna delle versioni sanscrite giunte a noi è più antica di quella cinese di Kumarajiva, che risale al 406 d.C., e tutte differiscono da essa in modo abbastanza rilevante. La traduzione di Kumarajiva rappresenta la versione più antica e quindi più vicina all’originale. Ma il fattore più importante è che il testo cinese di Kumarajiva è la versione in cui il Sutra del Loto è stato conosciuto e letto nel corso dei secoli in tutti i paesi dell’Asia orientale. Il Buddismo in India si estinse molto tempo fa e le versioni sanscrite del sutra furono a lungo ritenute perdute; solo recentemente, a distanza di parecchi secoli, sono state riscoperte. Ai nostri giorni solo pochissimi studiosi leggono il Sutra del Loto in versione sanscrita, mentre il testo di Kumarajiva è conosciuto e recitato ogni giorno da milioni di persone, monaci e laici, in tutto l’Estremo Oriente. Il linguaggio e le immagini della traduzione cinese sono quelli che hanno plasmato la vita e il pensiero religioso dei popoli in quelle regioni del mondo, influenzando la loro arte e la loro letteratura. Partendo da queste premesse, si è ritenuto pienamente giustificato il fatto di pubblicare la traduzione di questa versione tuttora viva e vitale.
                                                                                    Per i lettori che non conoscono l’interessante biografia di Kumarajiva, si può ricordare che egli visse dal 344 al 413 ed era nato nel piccolo stato di Kucha, nell’Asia centrale. Il padre, di origine indiana, apparteneva a una famiglia nobile e negli ultimi anni della sua vita divenne monaco buddista. La madre era sorella minore del sovrano di Kucha. Il fanciullo fece ben presto il suo ingresso nell’Ordine buddista, viaggiando a lungo in tutta l’India insieme alla madre, che nel frattempo si era fatta monaca. Acquisita una profonda conoscenza delle scritture e degli insegnamenti buddisti, fece ritorno alla sua terra natale, dove si dedicò alla propagazione del Buddismo Mahayana.

                                                                                      Col tempo la sua fama di dotto raggiunse la Cina e l’imperatore cinese, spinto dal desiderio di avere presso di sé una figura tanto autorevole, ordinò a uno dei suoi generali di invadere lo stato di Kucha e di condurre Kumarajiva nella capitale Ch’ang-an. A causa di un cambiamento della dinastia regnante, Kumarajiva rimase prigioniero per alcuni anni a Liang-chou, nella regione di Kansu, e giunse a Ch’ang-an solo nel 401. Là, con il sostegno del sovrano, si impegnò in uno strenuo programma di traduzione, producendo in rapida successione una serie di autorevoli versioni cinesi di sutra e trattati buddisti, in tutto trentacinque opere, tra cui il Sutra del Loto. Nel suo lavoro poté avvalersi della collaborazione di una folta schiera di discepoli e monaci cinesi, che confrontavano la sua traduzione con le precedenti versioni, discutevano con lui il significato dei testi e lo aiutavano a perfezionarne la formulazione. Questa è indubbiamente una ragione che spiega perché la traduzione del Sutra del Loto compiuta da Kumarajiva sia di gran lunga superiore alle altre versioni cinesi e abbia conosciuto la fama di cui si è già parlato.

                                                                                        Il presente lavoro è nato da un incontro che avvenne a Tokyo nel dicembre del 1973 tra me e Daisaku Ikeda, presidente del movimento buddista Soka Gakkai Internazionale. Allorché il presidente Ikeda venne a sapere che gran parte del mio lavoro di traduttore era da opere della letteratura classica cinese, mi disse: «Allora lei deve tradurre una nuova versione inglese del Sutra del Loto di Kumarajiva!» Il progetto mi piacque sin dall’inizio e, nonostante siano trascorsi diversi anni prima che potessi accingermi al lavoro, sono profondamente grato per aver avuto l’opportunità di confrontarmi con un’opera di fama imperitura.
                                                                                        La traduzione è stata realizzata con l’aiuto del Dipartimento per le Traduzioni della Soka Gakkai. Il testo di riferimento è quello cinese affiancato dall’adattamento alla sintassi e alla grammatica giapponese (yomikudashi) pubblicato dalla Soka Gakkai a Tokyo nel 2002, nel volume Myoho renge kyo narabi ni kaiketsu. L’edizione contiene alcune piccole differenze rispetto a quella del 1961, su cui era basata l’edizione pubblicata dalla Columbia University Press nel 1993. Il testo della versione cinese di Kumarajiva è stato ormai definito da tempo e le discordanze sono di scarsa rilevanza. Vorrei qui esprimere tutta la mia gratitudine per le molte persone aderenti alla Soka Gakkai Internazionale per il supporto che mi hanno offerto. I collaboratori non si sono limitati a un accurato riscontro del mio lavoro, ma in diverse occasioni mi hanno aiutato con preziosi consigli a risolvere problemi interpretativi alquanto complessi.

                                                                                          A questo proposito vorrei fare alcuni esempi che possono far capire l’entità dei problemi di interpretazione del testo. Il cinese classico, la lingua utilizzata da Kumarajiva, è estremamente sintetico nello stile, quindi spesso ambiguo semanticamente e sintatticamente, e lascia aperte diverse ipotesi risolutive. Ad esempio, è facile capire dove inizia un discorso diretto, ma spesso è difficile determinare esattamente dove finisca. In genere i verbi hanno il soggetto sottinteso e quindi alcuni passi possono essere tradotti in diversi modi tutti altrettanto plausibili. Ci sono casi in cui non è chiaro il tempo di una forma verbale; in altri non si è certi se un nome sia singolare o plurale. Tutto questo vale a maggior ragione per i passi in versi, là ove la lingua è stata forzata o compressa per ragioni metriche; talvolta, in queste situazioni, non si può individuare il significato del passo se non ricorrendo al parallelo brano in prosa.
                                                                                          A causa di questi problemi e ambiguità ricorrenti non si verificherà mai il caso che due traduttori dal cinese offrano la stessa versione di un passo. Nella maggior parte dei casi ciò non vuol dire che un traduttore abbia ragione e l’altro abbia torto, ma semplicemente che sono state fatte diverse scelte interpretative. Nella traduzione attuale ho cercato di rendere il testo cinese nella accezione ormai accolta tradizionalmente in Cina e in Giappone. Per questa ragione ho preso in attenta considerazione la lettura yomikudashi contenuta nel libro citato più sopra, che riordina gli ideogrammi cinesi in modo che si conformino alla sintassi giapponese. Questa lettura si basa sull’interpretazione del testo seguita da Nichiren (1222 - 1282), monaco giapponese che fondò una scuola buddista oggi conosciuta come Buddismo di Nichiren e che tenne lezioni sul Sutra del Loto ai suoi discepoli e seguaci laici nel corso di tutta la sua vita. A sua volta, la sua interpretazione si basa sui commentari al Sutra del Loto del grande studioso cinese Chih-i (538 - 597), fondatore della scuola buddista T’ien-t’ai.

                                                                                            Si deve osservare che nei suoi scritti Chih-i elaborò un sistema interpretativo estremamente complesso e sofisticato, per mezzo del quale cercò di mettere in luce il significato più profondo del sutra e chiarirne la posizione e l’importanza nell’ambito dell’intero corpus delle scritture buddiste. Questo sistema fu ulteriormente rielaborato e raffinato nei commentari alle opere di Chih-i, compilati dai suoi discepoli e seguaci della scuola T’ien-t’ai. Al giorno d’oggi, per comprendere perfettamente il modo in cui il Sutra del Loto è stato interpretato nelle scuole buddiste dell’Asia orientale, occorrerebbe padroneggiare le idee e la terminologia di questo sistema interpretativo. Ma la sola descrizione di tutto il sistema richiederebbe altrettanto spazio quanto la traduzione stessa e non faciliterebbe certo l’approccio diretto e personale del lettore all’opera. Ho fatto alcuni riferimenti al sistema interpretativo di Chih-i nel glossario e nell’introduzione, cercando tuttavia di concentrarmi sulle dottrine e sui temi menzionati esplicitamente nel sutra.

                                                                                              Per tornare alla traduzione, il problema più intricato da risolvere è stato quello del significato da attribuire alla parola cinese fa, che traduce a sua volta il termine sanscrito dharma. Talvolta, nella versione cinese, la parola fa sembra riferita alla verità insegnata dal Buddismo, oppure alla dottrina nel suo insieme: in questi casi è stata tradotta utilizzando il termine dharma o “la legge”. Ma ci sono casi in cui fa è preceduto dalla parola chu, che rende il termine plurale; in questo caso tradurre semplicemente “le leggi” significherebbe attribuire al testo un tono giuridico e quindi si è optato per “dottrine” o “insegnamenti”. La parola dharma in sanscrito può anche significare “cosa” o “fenomeno”, uno degli elementi che costituiscono l’esistenza, e ci sono brani in cui questo significato è chiaramente intuibile nel testo cinese. Una delle frasi più note nella traduzione cinese del Sutra del Loto è chu-fa shih-hsiang (shoho jisso in giapponese), che compare nel secondo capitolo e che nella presente versione è stata tradotta come “il vero aspetto di tutti i fenomeni”. Ci sono infine casi in cui fa sembra riferirsi semplicemente a una regola, a un metodo, ed è stato reso di conseguenza.

                                                                                                È spiacevole compiere questo genere di distinzioni che non esistono nell’originale, ma adottare sempre il termine dharma per tradurre la parola fa avrebbe comportato una forma molto discutibile e non avrebbe in ogni caso aiutato a risolvere i problemi interpretativi. Pertanto ho deciso di tradurre tale termine secondo il contesto, assumendomene la responsabilità, e forse non sempre ho fatto la scelta migliore. I lettori possono essere comunque certi che ognuno di questi casi è stato valutato con estrema attenzione.

                                                                                                  Bibliografia delle traduzioni integrali del Sutra del Loto in lingua inglese

                                                                                                  The Saddharmapundarika, The Lotus of the True Law, trad. da Jan Hendrik Kern, Sacred Books of the East, vol. 21, Oxford, Clarendon Press, 1884. Si tratta della prima traduzione in lingua inglese, condotta su una versione sanscrita che il traduttore data al 1039.

                                                                                                    The Sutra of the Lotus Flower of the Wonderful Law, trad. da Senchu Murano, Tokyo, Nichiren Shu Headquarters, 1974. È una traduzione della versione cinese di Kumarajiva. Breve introduzione, glossario molto ricco, particolarmente utile ai lettori che conoscono la pronuncia giapponese di nomi propri e termini specifici buddisti.

                                                                                                      The Threefold Lotus Sutra: The Sutra of Innumerable Meanings; The Sutra of the Lotus Flower of the Wonderful Law; The Sutra of Meditation on the bodhisattva Universal Virtue, trad. da Bunnô Katô, Yoshirô Tamura e Kojiro Miyasaka. Tokyo: Kosei, 1975. Anche questa è una traduzione della versione cinese di Kumarajiva, che presenta anche due altri brevi sutra che, sin dai tempi di Chih-i sono stati considerati come prologo ed epilogo del Sutra del Loto. Breve introduzione e glossario abbastanza ampio.

                                                                                                        Scripture of the Lotus Blossom of the Fine Dharma, trad. da Leon Hurvitz, New York, Columbia University Press, 1976, traduzione della versione di Kumarajiva. Contiene una prefazione, un glossario e un’ampia raccolta di passi tradotti da una versione sanscrita per evidenziare le differenze sostanziali tra la versione cinese e quella sanscrita. Una preziosissima opera per specialisti.

                                                                                                          The Lotus Sutra: The White Lotus of the Marvelous Law, trad. da Tsugunari Kubo e Akira Yuyama. Tokyo-Berkeley: Bukkyo Dendo Kyokai, 1991. Traduzione del testo di Kumarajiva. Breve introduzione del traduttore, glossario sanscrito e bibliografia scelta.

                                                                                                              Note

                                                                                                              1. George J. Tanabe, Jr. e Willa Jane Tanabe (curatori): The Lotus Sutra in Japanese Culture, Honolulu, University of Hawaii Press, 1989, pag. 2 del capitolo introduttivo.
                                                                                                              La Biblioteca di Nichiren
                                                                                                              istituto buddista italiano soka gakkai
                                                                                                              senzamotica
                                                                                                              Eredità della vita
                                                                                                              otto per mille
                                                                                                              nuovo rinascimento
                                                                                                              buddismo e società
                                                                                                              volo continuo
                                                                                                              esperia

                                                                                                              © Soka Gakkai. © Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai. | Via di Bellagio 2/E 50141 Firenze FI | C.F. 94069310483 | P.I. 04935120487 | Privacy & Cookie Policy.

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